La struttura della Bhagavad Gita: un tentativo di comprensione

Introduzione
Leggendo la Bhagavad Gita mi sembra di viaggiare in India: intensa, sublime e incomprensibile. Sì perché se è vero che ogni angolo di Varanasi, di Rishikesh, di Tirunnamalai nasconde un mondo, un colore, un’emozione, se è vero che potresti riflettere su ogni verso della Gita per giorni interi, è anche vero che alla fine del viaggio, così come dopo aver letto la Gita – capitolo per capitolo, lentamente o lo stesso tutto di un fiato – rimango spaesato.
Cosa vuole dire tutto questo? Perché ho sentito di riconnettermi così tanto con me stesso passeggiando su antichi Ghat, osservando pire di fuoco, seduto davanti alla tomba di un Sadhu?
Perché quando arrivo in una città indiana, sempre la stessa, subito mi ammalo e poco dopo devo scappare? Perché mi sento invaso e atterrito da tanta intensità ma poi sempre ritorno? Perché un massaggio a Kochi rimane nel corpo e una meditazione in un’enorme sala bianca può durare per anni?
L’india ti respinge, poi ti vuole e certo ti mette alla prova; senti che ti fa soffrire ma in fondo ti ama; lei ti fa intuire ma ti lascia confuso; traspare ma vuole sempre che sia tu a fare il passo.
Lo stesso spaesamento lo incontro leggendo la Gita.
A volte mi sembra che ogni verso sia di tale forza da potermi cambiare in un secondo la vita, altre volte mi sembra che tutti i 700 versi dicano sempre la stessa cosa. A volte mi sembra logica, a volte totalmente contraddittoria. E poi quei nomi lunghissimi, quegli epiteti che cambiamo in continuazione e che non capisci a chi si rivolgono e le decine di traduzioni totalmente diverse; poi semplicemente la apro, leggo poche righe e mi commuovo.
Eh sì, a volte la amo e a volte la odio!
Data tutta questa premessa, e forse perché in fondo chi respinge attira, mi è quindi venuta voglia di tentare di capire se esiste una struttura nella Gita, se c’è una trama che tiene in mano tutti questi versi. Perché i capitoli sono 18, non 20 e non 17 e perché i versi sono 700, non uno in meno e non uno in più.
L’idea che vorrei sviluppare in queste pagine è dunque relativa alla struttura della Gita. La Gita è composta di 18 capitoli, 18 yoga, 18 possibilità di unione con il divino. Questi percorsi sono progressivi, sono alternativi, o sono paralleli? Esiste una gerarchia? Possiamo partire dal percorso 17 oppure dobbiamo fare tutti i precedenti? Si può tornare indietro?
Devo ammettere che dopo aver preso questa decisione ho passato giorni di pura euforia e poi giorni di cupo silenzio.
“Il guru è DIO ma se non fai i passi, non ti muovi” diceva Ramana Maharshi.
Allora ho deciso che per questi mesi (o forse per tutta la vita?) la Gita sarebbe stata il mio Guru e che nel buio, a tentoni, barcollando, in un modo o in un altro insomma, avrei tentato di fare il primo passo.

Una bussola per orientarmi
Di fronte a questa sensazione di difficoltà, di impotenza o di incapacità di entrare nella profondità di questo testo sacro, ho pensato di procedere come facevano gli antichi marinai nel mezzo della tempesta, in assenza di sole o di chiare stelle: ho provato a costruirmi una bussola.
Uno strumento che mi indichi i 4 punti cardinali, Nord, Est, Sud e Ovest e che mi aiuti a mettere un po’ di ordine, quantomeno nella mia testa e nel mio cuore. Insomma qualcosa che mi dia una direzione.
E’ Vishnu che parla nella Gita, tramite Krishna in cui si è incarnato. Guardo la sua immagine e bene, vedo 4 braccia che potrebbero indicarmi il cammino.
In una tiene in mano Sudarśana, disco con 108 punte, simbolo della mente cosmica e dei cicli del tempo. Nell’altra impugna Sankh, conchiglia che rimanda al sacro suono hohm, la melodia dell’amore divino nel mondo. E poi abbiamo Kaumodaki, il bastone del potere e infine abbiamo Padma, il loto simbolo di Dio con le radici nella terra.
Provo quindi a cercare i 4 simboli nella Gita, a volte mi assale il dubbio di continuare a navigare senza direzione, provo ad avere una conferma.
Ti vedo con …… il Tuo disco, splendente ovunque come una massa difficile da guardare, che irradia da ogni parte come il fuoco e il sole, fiammeggiante, incomparabile” (Capitolo XI, Vs 17). Il disco con le punte quindi sembra essere l’immagine del sole, la luce che tutto rischiara, la luce dell’intelligenza, della comprensione della Buddhi. Mi vengono in mente le aureole dei nostri santi, degli illuminati dell’Occidente…va bene, decido che Sudarśana è il mio EST, dove il sole sorge.
Andiamo avanti: “e allora Krishna soffiò nella sua Panchajanya” (Capitolo I, Vs 15), la conchiglia creata con le ossa del demone Panchajana che viveva nelle profondità’ del mare. La conchiglia rimanda alla forma del nostro orecchio, all’ascolto profondo, interno, all’acqua uterina: “Chi ha orecchie per intendere intenda” diceva Gesù. La conchiglia di Krishna, fatta con i resti di ossa, ci ricorda che una parte di noi deve morire per poter incontrare la nostra parte divina, ci ricorda che la meditazione è un imparare a morire. La conchiglia è l’involucro fragile e resistente insieme che protegge al suo interno una creatura vulnerabile. Panchajana, per chi sa ascoltare, emette il sacro suono dell’Hohm, che e’ il suono di Dio, che e’ una delle strade per riconnetterci a lui. L’Hohm è il suono dell’Amore di Dio nel creato e ci ricorda che per sentirlo dobbiamo andare nel nostro profondo. La conchiglia è il SUD.
Quindi la divinità e gli umani comunicano attraverso le spirali, in un percorso di ascesa e discesa: come con una conchiglia così come con le spirali di fumo. E allora sì, Kaumodaki è il bastone simbolo fallico di potere e di capacità di fare e di creare. Ma anche, così almeno mi sembra di intuire, il simbolo della Kundalini risvegliata, che dalla profondità (Panchanayana), si innalza verso l’alto. Il bastone è il potere, ma anche Ananta, il serpente del “senza fine”. In questo movimento ascendente il bastone è il NORD. “Tra i serpenti divini io sono Ananta..” (Capitolo X, Vs 29, che per inciso il 29 nella smorfia napoletana è “o padre re creature, il fallo appunto😊).
E infine il loto indiano, immerso nel putrido ma meraviglioso verso il sole, che si apre come una gemma all’alba e si richiude come uno scrigno al tramonto. Evoca la nostra vita: immersa nella materia ma anelante al sole; rappresenta la possibilità di coesistenza di Praktriki e Purusha, della forma e della sostanza, del bestiale e del sublime dentro di noi. Il loto sembra essere un miracoloso equilibrio di luce e buio, un tramonto che ricorda struggente il passare del tempo ma permette un riposo prima del nuovo ciclo. “Ho udito da te dettagliatamente dell’origine e delle dissoluzione degli esseri, come pure della Tua inesauribile grandezza, O Signore dagli Occhi di Loto” (Capitolo XI, vs 2). Padma, contemporanea presenza di origine e dissoluzione, di vista dell’invisibile, è dunque l’OVEST, tramonto e augurio di rinascita.
Chiaramente sbalordisco quando, durante una pratica yoga particolarmente forte, mi rendo conto che i 4 simboli, le 4 direzioni, i 4 cammini sono il mandala della carta 21 dei Tarocchi, con una donna al centro nuda e i 4 angoli con i 4 simboli.
Bene mi sono detto, forse questa bussola funziona, e quindi provo ad andare avanti!
Si dice che Brahma, prima della creazione del mondo, stando in piedi su un enorme loto dai mille petali, volgesse gli occhi ai 4 punti della circonferenza: una specie di orientamento preliminare prima di iniziare l’opera creativa.
La nascita è come un sonno, un oblio dalla nostra natura di essere divini. Quel loto è identico allo spazio: le quattro direzioni cardinali sono i suoi petali.
E allora continuo a cercare: i 4 antichi veda (i veda degli Inni, delle formule magiche, delle melodie e delle formule sacrificali), le 4 stagioni dei cicli della natura, i 4 vangeli, le 4 fasi della vita dell’uomo, i 4 elementi della natura nella tradizione greca, le 4 nobili verità del Buddha, la 4 via di Gurdjieff, i 4 petali del loto di Muladhara chakra (il chakra della stabilità appunto), le 4 virtu’ cardinali, le 4 strofe degli slokas della Gita, i 4 Pada degli Yoga Sutra di Patanjali, la stabilità dei 4 piedi di un tavolo e di un Urdva mukha svansana ben fatto, etc.…
E poi ancora mi rendo conto che il carro di Arjuna è guidato da 4 cavalli, cosi come lo era quello di Apollo Dio del Sole, e come la metafora del carro e dei cavalli è parte dell’insegnamento di Gurdjieff, dove i 4 cavalli rappresentano le 4 funzioni che l’uomo ha per esperire la realtà: la fisicità, la creatività,’ la mente e il sentimento. Il carro nei Tarocchi ha solo due cavalli, ma le ruote sono veramente strane e potremmo immaginare che dietro la figura ci siamo altri 2 cavalli. La metafora del carro evidenzia la necessità di domare queste forze, o meglio di indirizzarle: se le 4 energie tirano nei sensi opposti noi non progrediamo. Se tutti hanno una stessa direzione è una corsa!
Secondo Jung la quadruplice valutazione visiva di Brama prima della creazione dell’Universo sono le 4 funzioni della coscienza: il pensiero, il sentimento, l’intuizione e la sensazione.
Mi sembra di trovare una coerenza in tutto questo, in epoche e culture tra loro diverse; come se questa necessità di orientarsi e capire sia parte del processo umano di evoluzione.
E infine arrivo ai 4 cammini dello Yoga: i 4 possibili percorsi che l’uomo, seguendo le sue naturali inclinazioni e preferenze, può utilizzare per riconnettersi, per unirsi a Dio.
Il Karma yoga è la via dell’azione. È la via che spinge a ricongiungersi con il proprio Dharma; è la via del guerriero consapevole, che sa di dover lottare nella guerra degli opposti perché a questo è chiamato. E’ la via dove assurdamente il massimo che si può ottenere è la rinunzia al frutto dell’azione. È la via dove possono coesistere gioie e dolori, morte e vita, luce e ombre. È la via della materia come parte del creato. E’ quindi la via del loto.
La devozione, i sentimenti, il cuore si aprono nel Bhakti yoga. Come una coppa stracolma il nostro cuore straripa di amore senza sforzo, in modo spontaneo. Il servizio di devozione può essere verso l’umanità, il creato, un maestro o una delle manifestazioni di Dio. E’ l’amore come un tessuto che struttura l’universo, come il suono Hohm che ovunque risuona. Il Bhakti yoga è quindi Panchajana, la conchiglia.
Jnana yoga è la via di Kaumodak, il bastone. Sia come possibilità di esperire – la sostanziale unità tra il proprio Se’ e Brahman – sia come energia che attraverso la discriminazione si può manifestare in noi.
E poi il Raja yoga è lo yoga del controllo della mente, il cui ultimo gradino, l’ottavo, il Samadhi, è l’unione della coscienza cosmica. Pratichiamo asana, rispettiamo regole, eseguiamo Pranayama e meditazione con l’obiettivo di addomesticare, per pochi attimi o per la vita intera, la nostra mente. Questo cammino è dunque il disco dalla 108 punte dove la nostra mente, quello che più ci differenzia dalle altre specie del creato, è visto come un cerchio (la nostra testa appunto), concentrata ma con apertura (i 108 raggi, le Upanishad) verso ciò che sta fuori.
Mi sembra di aver raccolto abbastanza conferme e decido quindi di orientarmi tra i 18 capitoli della Gita secondo questo mandala, schema o canali di interpretazione. Voglio provare cioè a sentire, a percepire ogni capitolo della Gita a quale delle 4 vie si riferisce: l’energia del cuore, l’energia della mente, l’energia della materia o quella del bastone. Si lo so, 18 non è divisibile per 4, ma esiste sempre un inizio e una fine in ogni percorso: il Capitolo 1 e il Capitolo 18!
Sono ben cosciente che questa è solo una possibile griglia, una possibilità tra tante. Tutto si gioca nella relazione tra cerchio e quadrato. Nel cerchio si ritorna sempre al punto d’inizio: non esiste un percorso principale, ma ogni punto è equidistante dal centro: ogni punto è una possibilità di incontro con Dio, ogni punto è già Dio; nel quadrato i 4 angoli, incrocio di linee, pongono l’attenzione su un punto, su una specifica via, su alcune direzioni. Non è possibile la quadratura del cerchio, non è possibile inserire i nostri schemi (il nostro quadrato appunto), nella divina realtà del cerchio – perché accettiamo che la Gita sia di diretta ispirazione divina. Dio è tutto ma in questo dobbiamo orientarci: le 4 braccia di Vishnu, dono che parte dal Suo cuore per l’umanità, possono essere l’orizzonte di orientamento nel divino mare.
E con questa consapevolezza decido di andare avanti.

La struttura numerica della Gita

Mi sono poi posto la questione del significato del numero dei capitoli della Gita (18) e dei versi in essi contenuti (700). Come dicevo: perché 18 capitoli, non 19 e non 17? Perché esattamente 700 versi? Provo a procedere.
Anzitutto 18 sono i giorni che dura la battaglia del Dharmakshetra, il campo di combattimento tra i Kaurava e i Pandava, tra i giusti e i malvagi, tra i traditi e i traditori, tra le tendenze che ci innalzano e le tendenze che ci portano verso il basso. 18 giorni sono necessari perché prevalga quello che è giusto, quello che è necessario, quello che corrisponde alla nostra natura. La Gita ci sta quindi dicendo che i suoi 18 capitoli – il racconto della Gita è nel primo giorno del combattimento – sono un compendio della guerra che dobbiamo fare dentro di noi per elevarci. Il Dharmashetra è quindi la spina dorsale, con i sui Chakra e la possibilità di salire e di scendere. Come se 18 corrispondesse al “tempo santo” che ci meritiamo o necessitiamo per comprendere e procedere rettamente. Che poi questo 18 possa corrispondere a 1 giorno, 10 anni, una vita o 100 vite poco importa. Ognuno di noi comunque ha il suo tempo santo a disposizione.
18 è anche il numero dei reggimenti nei due eserciti che si fronteggiano nel Dharmakshetra: 11 tra i Kaurava e 7 tra i Pandava; le tendenze malvagie sembrano prevalere su quelle giuste. La Gita ci sembra voler quindi dire che questi 18 capitoli, questi 18 sentieri, sono anche le munizioni a nostra disposizione nel corso della nostra battaglia. E in questa lotta dobbiamo anche accettare di affrontare le 11 divisioni malvagie che si agitano dentro di noi.
18 poi è un multiplo di 9. Si dice che 9 sia il numero di Purusha perché la somma teosofica dei sui multipli da sempre 9: torna cioè a se stesso – 9X1=9, 9X2=18=8+1=9, 9X3=27=7+2=9, 9X3=36=3+6=9, etc.….
2 lati composti da 9 quadratini con somma 9 sono poi la rappresentazione del quadrato vedico: i nostri 18 capitoli sembrano corrispondere ai due lati del quadrato. Forse quindi non a caso nel capitolo 9 della Gita, l’intersezione tra i due lati del quadrato vedico, viene svelato il “reale segreto”. Il quadrato vedico vuole essere la rappresentazione delle celesti armonie e corrispondenze della realtà che, seppur velate, si possono cogliere quando da manas passiamo a buddhi.
Mi cade poi l’attenzione sul fatto che nel quadrato vedico il numero 9 compare 21 volte, esattamente come il numero degli arcani maggiori dei Tarocchi.
Andiamo avanti: 108 è un numero sacro in India. 108 sono le Upanishad, i grani del mala, le gopi di Krishna, i luoghi di santi di Vishnu (Divyadesams), le punte di Sudarśana, i nomi di Shiva, Visnu, Durga e di molte altre divinità.
108 include il 9 (vedere sopra) in quanto somma teosofica dei tre numeri ed è un 18 con uno zero in mezzo. Il concetto di zero arriva dall’India ed è stato introdotto in Europa intorno all’anno 1000 tramite gli arabi. È un concetto talmente assurdo che nel Medioevo era considerato demoniaco e fu accettato solamente a metà del XVII secolo. Lo zero da solo non vale nulla, ma vicino ad un altro numero è in grado di moltiplicarlo all’infinito. Lo zero ha la forma del cerchio, è come Dio in terra: mi sembra come la ruota dei popoli precolombiani: talmente sacra da non poterla mettere sotto al carro. Quindi possiamo vedere il 108 come un 18 con Dio nel mezzo. E 1 è ancora Purusha, l’unità e l’8 è universalmente considerato come il numero dell’equilibrio cosmico – somma del quadrato della terra e del cielo. I 18 capitoli con al centro Dio, Krishna, l’atman o noi stessi, sembra essere dunque la ricostruzione del sacro numero 108.
Sono poi felice quando mi accorgo che la somma teosofica dei 972 petali del 7 chakra, quello aperto all’Illuminazione è ancora 18: sì tramite la Gita possiamo riconnetterci al cielo!
La prima forma che appare nella creazione dal fiore di loto sognato da Vishnu è Brahma; si ritiene che il sogno cosmico duri 100 anni di Bramha, dopodiché’ scomparirà per ricomparire nuovamente al rischiudersi del fiore del loto. I 100 anni di Bramha corrispondono a 8.640.000.000 anni umani, esattamente come le 24 ore del nostro giorno contengono 86.400 secondi. E poiché’ il secondo in un essere umano in salute è la durata di un battito cardiaco, esiste una assoluta corrispondenza tra il nostro ritmo interno, del nostro corpo e della nostra vita, e quello cosmico – come fuori cosi dentro, come in cielo cosi in terra. Il ritmo del nostro cuore è il ritmo di Dio e ad esso ci ricollega. E ancora chiaramente la somma teosofica degli anni del sogno cosmico di Shiva, cosi come dei secondi nelle nostre 24 ore, è 18!
Passiamo ora a vedere il numero dei versi: 700 slokas di cui 648 hanno una metrica (4 strofe di 8 sillabe l’una) mentre le restanti 52 un’altra (4 strofe di 11 sillabe l’una).
Ancora la somma teosofica di 648 è 18, e di 52 è 7 (come di 700).
7 sono le note musicali armonia dell’universo, 7 sono le virtù dell’essere umano, 7 sono i principali chakra, 7 sono i grandi rishi, i metalli della trasmutazione alchemica, 7 sono i giorni che impiegò il Dio biblico per creare la terra.
Insomma il numero 7 è un numero evocativo, autonomo (in quanto numero primo), attivo; come armonia del creato può essere un ponte verso il divino.

Lo Yantra della Gita

Riprendo rapidamente l’idea esposta nel primo capitolo. Il quadrato di riferimento sono le 4 energie dell’essere umano, a cui corrispondono i 4 cammini dello Yoga: l’energia mentale e lo yoga regale, l’energia della creazione che si manifesta nel Jnana yoga, il Bakti yoga è il cuore e il Karma entra nella comprensione della materia.
Questo è il quadrato. E poi c’è la Gita che, manifestazione divina, è il cerchio. Mi vorrei cimentare dunque in questo capitolo in un alternativo percorso di quadratura del cerchio: cercare di riorganizzare la Gita nei 4 angoli dell’energia umana.
Per fare questo provo a immaginare che ogni capitolo della Gita sia una proposta di percorso, che ogni essere umano può intraprendere, a seconda della propria natura, del proprio Dosha, dei singolari interessi e inclinazioni.
Provo dunque a spremere e riepilogare con una frase, con un verso ogni singolo capitolo della Gita.
Per iniziare il percorso di ricerca personale devi entrare in crisi, il tuo vecchio mondo deve morire e come un eroe devi partire alla ricerca del tuo vello d’oro (Capitolo 1). Qui inizi a capire che in quella materia che hai davanti (Prakriti) esiste il divino (Purusha), anzi che quella materia è una manifestazione del divino e che ad essa tu devi riconnetterti – in questa od in un’altra vita (Capitolo 2). Ti sembrerebbe di poterti arrestare a questo punto, che va bene fermarsi a contemplare; invece no, continua ad agire seguendo il tuo Dharma e senza attaccamento per i frutti dell’azione perché questa è la base dello scambio tra Praktrici e Purusha (Capitolo 3). Nel capitolo 4, il capitolo dell’orientamento appunto, ti ricorda che devi esperire, che devi apprendere la tua conoscenza e la tua saggezza dalla realtà. Dobbiamo dunque agire o rinunciare? la cosa importante è rinunciare al frutto dell’azione e non vestirsi dei panni del rinunciante con la mente sempre nei desideri (Capitolo 5). Uno strumento fondamentale per raggiungere questo è la meditazione: siediti su una pelle di daino, né troppo né troppo il basso, fissa la sua mente su un solo punto, controlla l’attività pensante e sensoriale, tenendo il corpo, la testa ed il collo eretti ed immobili, fissando stabilmente lo sguardo interiore verso la punta del naso, senza guardarti attorno (Capitolo 6). Ma ancora ti ribadisco: la conoscenza nasce dal fare esperienza della sostanziale mia presenza nel tutto; resto trascendente ma anche manifesto (Capitolo 7). E quindi: concentrandoti sempre in me, massimamente nel momento della morte, pronunciando la lettera Hohm, Mi raggiungerai (Capitolo 8). Nel Capitolo 9, arrivati a metà del percorso, ti svelo il massimo dei segreti: tutto l’universo è pervaso da me; tutti gli esseri dimorano in Me; pratica quindi massimante la devozione. Non c’è limite alle mie estensioni, alle mie manifestazioni divine: tu conosci te stesso per mezzo di te stesso (Capitolo 10) Può succedere dopo ardua ricerca e sforzi, oppure all’improvviso, dipende dal tuo Karma, mi possa anche manifestare direttamente davanti ai tuoi occhi e mostrarmi nella mia forma divina: potente, maestoso e spaventoso; devi essere pronto per non rimanere terrorizzato di fronte a me (Capitolo 11). In Me soltanto fissa la tua Mente, che il tuo intelletto riposa in Me: e se questo non ti riesce possibile, comunque compiendo le azioni per Me, come sacrificio a Me, conseguirai la perfezione (Capitolo 12). Fai come consigliava Gurdjieff: osserva dall’esterno i personaggi che vivono in te per aumentare la tua consapevolezza (Capitolo 13). In ogni caso agiranno in te, come ovunque nella natura, i 3 guna: osservali dentro e fuori di te (Capitolo 14). Poiché io sono il puro Purusha per entrare in contatto con me poni le tue radici verso il cielo, in modo tale che da lì, dal cielo, arrivi la tua linfa (Capitolo 15). La realtà, il gioco, o per meglio dire le regole del gioco, prevedono che ci siano anche pulsioni che portano verso il basso: la triplice porta della lussuria, dell’ira e dell’avidità: attieniti alle scritture e esperisci per salire e non scendere (Capitolo 16). Ti ho detto che il frutto dell’azione deve essere offerto come dono: questa offerta può essere satvica, tamasica o rajasico a seconda della nostra natura: la prima sarà senza attesa dei frutti dell’azione, la seconda attenderà una ricompensa, la terza e’ fatto in modo non corretto. (Capitolo 17). Quindi non rinunciare all’azione ma ai frutti della stessa; e soprattutto continua con gli atti di sacrificio, la carità e l’ascesi; e ricorda agisci secondo la tua natura senza imitare la natura degli altri (Capitolo 18).

Sulla base di questo concentrato, il passaggio successivo che provo a intraprendere è quello di riorganizzare i 16 Capitoli della Gita nei 4 cammini dello Yoga (escludendo dunque i Capitoli 1 e 18):
La via del Loto (Karma Yoga): la via del loto è la via della comprensione della materia e della realtà, e la via che ci spinge fino in fondo a vivere la nostra vita. E quindi a questa strada fanno riferimento i capitoli 2, 3, 5, e 15 che mi sembra si possano riepilogare: la materia è divina ed in essa devi vivere; agisci ma senza attaccamento al frutto dell’azione. È vivere come un albero con le radici al contrario: i nostri rami nella realtà ma la nostra linfa arriva dal cielo.
La Via della conchiglia è la via del cuore, della devozione: sii devoto e mira al mio cuore (Bakti yoga) Ad esso sono dedicati i capitoli 9, 11, 12, 16. Tutto l’universo è pervaso da Dio; tutti gli esseri dimorano in Me; pratica quindi massimante la devozione, intesa come sacrificio a me di tutte le tue azioni. E’ il cuore che deve aprirsi per potere accogliere Dio, non un sentimentalismo emozionale. Può anche accadere che Dio si manifesti davanti a se forma divina: potente, maestoso e spaventoso; devi essere pronto per non rimanere terrorizzato di fronte a me.
La via del bastone è la via della profonda conoscenza, della saggezza, del punto in cui il nostro intelletto può unirsi a Dio: la buddhi; ad essa sono dedicati i capitoli 4, 7, 10 e 17. La conoscenza di cui si parla qui non è erudizione, non è stare sui libri ed apprendere; è la saggezza che nasce dall’esperienza perché si raggiunge la coscienza che Dio pervade tutta la realtà.
Lo yoga reale è lo yoga del controllo della mente o meglio della connessione della mente con i ritmi dell’universo. Ad esso si riferiscono i capito 6, 8, 13 e 14. E’ il percorso di Patanjali, del chitta vritti nirodha, della meditazione e della concertazione in ogni attimo della vita. È lo yoga della coscienza e dell’osservazione dei sui movimenti.

Sono dunque arrivato ad attribuire i 16 capitoli della Gita ad ognuno dei 4 sentieri, delle 4 direzioni. Mi sembra di potermi orientare adesso con maggior facilità: la bussola sembra aver funzionato.
Vedo se posso iniziare a rispondere alle domandi iniziali, quelle da cui è partito il tutto. Che esista una trama, una struttura nella Gita sembra chiarito; mi sembra di intravedere una coerenza sempre più profonda man mano che procedo. Ci sono 18 possibili percorsi verso il divino, con le 4 sfumature o direzioni sopra rappresentate.
Sembra però non ci sia una progressione: i capitoli che riguardano le 4 vie si alternano e si susseguono senza dare un senso di progressione, ad eccezione del Capitolo 1, l’angoscia dell’inizio e del viaggiatore, e del Capitolo 18, dove tutto viene riepilogato. Possiamo forse aprire il libro a caso e come un oracolo leggere quello che ci propone: dobbiamo oggi, in questa specifica circostanza, aprire il cuore, studiare più assiduamente i testi sacri, o sacrificare (nel sentire di offrire) maggiormente le nostre azioni? Non sembra quindi esista una prevalenza di una strada sull’altra. Si, diciamo che i percorsi sono paralleli allora, nel senso che nel nostro cammino possiamo passare da uno all’altro, da un canto Bakti a una profonda meditazione, da un tuffo nel mare a una giornata di lavoro intenso, da ore di asana a una gioiosa avventura (e sì, temo anche sessuale😊) continuando a procedere verso la meta. Nulla viene scartato mi sembra, a condizione che sia coerente con il nostro Dharma. E quindi, lontano forse dalla nostra logica in cui “più è meglio”, non è detto che lo yoga del capitolo 17 sia migliore di quello del capitolo 2 o che per arrivare allo yoga della distinzione tra le qualità divine e demoniache (Capitolo XVI), bisogna aver passato lo yoga dell’angoscia (capitolo 1) : ognuno secondo le proprie inclinazioni e secondo il momento.
E in questa mancanza di coerenza rispetto alla nostra logica di uomini occidentali vedo il rispetto di quello che avviene nella realtà: perché Ramana Maharshi si illuminò a 17 anni, senza studi, senza asana o senza ore di tecniche di Pranayama? Perché i pastorelli di Fatima videro la Madonna a 7, 9 e 10 anni e noi forse non la vedremo mai? Perché ci illumineremo sul letto di morte o forse non ci basteranno una, cento o mille vite? Ogni Purusha ha una sua storia.
Mi viene poi in mente che solitamente la bussola indica il nord: ha un’attrazione, una direzione che tiene sempre costante: nel sereno cosi come nella tormenta. E’ cosi anche per la Gita? E’ un racconto che stringe l’occhio maggiormente in una direzione?
Forse si, per quanto posso sentire mi sembra che la via del loto sia la più “rivoluzionaria”, nel senso che porta lo spirito nella materia e non necessariamente la materia verso lo spirito. Si, è esattamente il movimento ascendete e discendente di cui parleranno secoli dopo gli alchimisti in Europa. Agiamo e santifichiamo i nostri frutti. Mi sembra la quarta via di cui parlava Gurdjieff: esiste la via del fachiro (jnanan yoga, entro nella materia), esiste la via del monaco (Bakti yoga), esiste la via dello Yogi (lo yoga reale). Esiste poi la possibilità di continuare sulla VIA anche nel mondo, senza rinchiudersi in un convento, praticare giornate intere di meditazioni o senza camminare sui fuochi ardenti.
E poi mi viene da pensare: ma cosa succede se dopo strenui sforzi non riesco ad aprire il mio cuore, non riesco a santificare la mia azione, non riesco a controllare la mente o a penetrare nel profondo la realta’?
Cosa succede se sono nato pieno di limiti, incapace, inetto a perseguire questo costante sforzo che la Gita, e con lei tutte le vie spirituali, sembrano costantemente chiedermi?
E anche qui la Gita arriva in soccorso: “Abbandona ogni dharma, vieni a me come Unico Rifugio. Non ti affliggere, ti libererò da ogni peccato” (GITA 18, verso 66).
Affidiamoci a Dio, prima o poi ci arriveremo; questa consapevolezza rilassa ogni respiro.

Mi rimane solo un punto da trattare, che nasce da quel sentire di cui ho parlato nell’introduzione. Che spazio ha in tutto questo l’attrazione e la repulsione che sento quando viaggio in India, quando leggo la Gita, quando entro in un ashram o semplicemente mi siedo a meditare.
Mentre scrivo mi viene in mente il primo viaggio in India, con 3 amici, 15 anni fa. Occidentali benestanti arrivano con l’autista sul sacro lago di Pushkar, si sistemano in albergo. Iniziamo a camminare sul lungolago, scroscia a pioggia a tratti, come spesso avviene durante il monsone. All’improvviso un fiume di acqua arriva, potente, fino quasi all’altezza delle ginocchia…: non si tratta di un piacevole rigagnolo di alta montagna, ma della fogna del paese che ha straripato per la troppa acqua… continuiamo a camminare, increduli e inorriditi, ma ormai ci siamo…in un attimo il cielo si apre, quasi come uno squarcio, e appare il sole; poco dopo donne dai mille colori, splendide e leggiadre, iniziano le loro abluzioni nel lago…noi continuiamo a camminare nella nostra melma…
Ecco: è un po’ questo che mi resta da capire: abbiamo visto il sublime, ma dov’è’ questa melma, dov’è il buio nella Gita?
Leggendo Dante il canto che più colpisce, il meglio riuscito per molti, è l’inferno; le passioni, i tradimenti, la lussuria sono un reale specchio di quello che in noi si muove.
Allora la domanda è: Dov’è il sudicio nella Gita? Esistono il bene e il male e quindi viviamo in un continuo dualismo? O sono anche loro in Prakriti e in Purusha? Dove sono le sofferenze? Non dico le “stupide” sofferenze quotidiane, che chiaramente sono illusione ed Ego. Non dico neanche la morte, che nel ciclo del Samsara assume una visione diversa. Parlo di stupri, di violenze, di torture, di malattie durissime. Parlo della partizione dell’India con milioni di morti. Sono anche questo Brahman, cara Gita?
Credo che la Gita sappia ciò che per noi è incomprensibile.
È questo forse che nel profondo mi affascina della Gita: in essa mi sembra che sia sottinteso che quello che noi chiamiamo male è anch’esso parte di Dio. E’ la croce del Cristo, la sofferenza del Buddha o la notte nera dei grandi mistici.
La accetta come parte del reale e credo, a volte, come strumento di elevazione. Sento di aver toccato un tabù, e mi spavento…
Ma di fronte a questo ritirarmi arriva un verso poetico, che sembra uscito dalla bocca di Dio, che mi ricorda che esiste un disegno ultimo, un volere divino, che ha come meta una via…
“E colui che studierà questo nostro sacro dialogo, Mi avrà adorato con il sacrificio della conoscenza” (GITA 18, Verso 70)

La sequenza
Ho provato a costruire una sequenza in 4 fasi, corrispondenti ai 4 cammini dello yoga e quindi alle energie dell’essere umano; sono partito dalla mente, quella che arriva più frastornata e agitata sul tappetino, la parte che più deve essere addomesticata; la seconda fase è dedicata al Karma yoga, la via dell’azione, in cui ho inserito le varie posizioni di potere – i guerrieri – e del bacino, come sede della nostra potenza. Una serie di asana sono rivolte poi ad aprire il petto per permettere al cuore di fluire (Bakti yoga). Infine le posizioni a terra vogliono riconnettere all’energia della comprensione della materia come emanazione divina e ricordarci di vivere nel presente.